Lo Yoga nella Tradizione

Lo yoga è una disciplina complementare al sentiero della conoscenza (jnana yoga). E’ una scienza spirituale che ha come fine l’unione con il Principio, la liberazione dell’anima e la sua reintegrazione nello Spirito.

Già il termine è indicativo dalla radice sanscrita yuj che significa soggiogare- unire: è disciplina del corpo e della mente, ma anche unione spirituale. Si tratta essenzialmente di sperimentare e realizzare l’unione totale:

  • in se stessi fra corpo, energia e mente;

  • con la fonte dell’energia comune a tutti gli esseri.

Possiamo definirlo anche come la reintegrazione dell’individuale nell’universale, del relativo nell’Assoluto, esprime perciò uno stato in cui sparisce ogni nozione di dualismo e differenziazione ritrovandosi un’ “unità”.

E’ una scienza perché si basa su una sperimentazione diretta che dà conoscenza, e quindi il controllo di tutte le nostre facoltà, potenziandole, equilibrandole ed armonizzandole.

Questo metodo è molto antico e sia nelle Upanishad che nella Bhagavad-gītā si insegna la tecnica yoga del controllo della mente. Pare che le pratiche yoga abbiano da sempre accompagnato l’uomo nel suo cammino sulla terra, nelle prime Upanishad le menzioni si sprecano, leggiamo nella Chāndogya-Upanishad, una delle principali e più antiche facente parte del Sāma-veda:

Colui il quale, ritraendo e concentrando in sé (nell’Ātman) tutti i sensi, rispetti…la vita di tutti gli esseri costui invero, che per tutta la sua vita così si conduce, costui entra nel mondo del Brahman dal quale non più ritorna, dal quale non più ritorna.” (VIII,5)

Nella Katha-Upanishad la parola yoga viene menzionata in maniera specifica:

Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga (adhyātma-yoga), avendo contemplato (in sé) il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l’antico, abbandona il piacere e il dolore.” (II,12)

Questo Ātman non è conseguibile mediante spiegazioni, mediante intelletto oppure studio, per quanto grande; esso può essere ottenuto da colui che egli stesso sceglie; è per costui che l’ Ātman riveste il suo corpo.

Non lo consegue con piena conoscenza colui il quale non abbia desistito dal compiere il male, che non sia sereno e raccolto, la cui mente non sia calma.”

(II,22, 23).

Nella Śvetāśvatara-Upanishad vengono menzionate alcune tecniche che diverranno proprie allo yoga:

Il saggio, avendo collocato il proprio corpo in un luogo piano, tenendo erette le sue tre parti (schiena, collo, testa), mediante la mente ritraendo i sensi dentro il cuore, potrà attraversare con la navicella del Brahman tutte le correnti che portano in sé il terrore. A questo punto, compresso il respiro nel corpo, e regolando i movimenti, si dovrebbe respirare attraverso le narici con soffio lieve; come un carro aggiogato con cavalli selvaggi, il saggio deve contenere la propria mente senza distrarsi”.


E ancora:

Si pratichi lo yoga in luogo pulito, piano, libero da ciottoli, fuoco e sabbia, vicino al suono dell’acqua o ad altre melodie, capaci di favorire il pensiero e non offendere la vista, un luogo riparato dal vento e raccolto”.

Nella Bhagavad-gītā, poema filosofico e religioso che fa parte del Mahābhārata e appartiene alla tradizione rammentata (Smṛti), leggiamo:

Concentrato nello yoga, compi l’azione rinunciando all’attaccamento: sii uguale nel successo e nell’insuccesso, il perfetto equilibrio interiore si chiama Yoga.”

(II, 48)

“Simile a fiamma, che non vacilla, in luogo senza vento, è lo Yogi che ha dominato la mente e che si è unito al Sé.” (IV, 19).

Come abbiamo visto i riferimenti alla disciplina dello yoga sono parecchi, tuttavia il testo base della scuola dello yoga classico è lo Yoga-sūtra di Patanjali.

Patanjali è stato il primo a elaborare le esperienze sparse nei vari testi e a codificarle in un sistema pratico o se si vuole scientifico. Il suo lavoro si inserisce accanto alle altre scuole ortodosse che traggono vita dai Veda e diventa Darśana (punto di vista). Da tutti poi riconosciuto come Raja yoga.

Esso porta a sospendere le modificazioni della mente, che sono poi la causa di velatura della nostra reale natura attraverso la proiezione di immagini illusorie sulla pura coscienza del Sé.

Attraverso questa disciplina fisica e mentale si arriva a conquistare le sei virtù (śat samāpatti), che Śamkara, grande filosofo indiano esponente di spicco dell’Advaita Vedānta, indica come prerequisiti per accostarsi al sentiero della conoscenza (jñāna-yoga). Esse sono:

  • Śama: è la calma mentale dovuta all’abbandono dei desideri o meglio degli impulsi causati dalle Vasana o tendenze subconsce. Grazie alla volontà, che è poi la facoltà su cui poggia lo yoga, la mente non aderisce più agli oggetti interni ed esterni. E’ forse la più importante conquista in quanto dona volontà e direzione. Spenti i vari fuochi fatui (impulsi subconsci) si alimenta un solo fuoco: la volontà di essere.
  • Dama: è l’autodominio. E’ la capacità di controllo degli organi e dei sensi corporei. E’ il controllo del corpo, dei sensi, dell’energia.
  • Uparati: è il raccoglimento interiore. La capacità di astrarsi dagli oggetti sensibili.
  • Titikşā: è la pazienza. La capacità di perseverare e non scoraggiarsi.
  • Samādhāna: è la fermezza mentale. La capacità della mente di rimanere stabile e concentrata. E’ questa qualità che porta a sospendere le modificazioni mentali e a raggiungere il Samadhi o contemplazione.
  • Śraddhā: è la fede. E’ la certezza interiore della Verità delle Scritture, del Maestro che ne è l’incarnazione, ma anche della propria possibilità di auto-realizzazione. Insieme alla pazienza dà il giusto ritmo alla sādhanā proprio per non essere né troppo severi e austeri, né troppo deboli e accondiscendenti con se stessi.

 

Tali virtù, che per Śamkara sono prerequisiti per intraprendere il sentiero dell’auto- indagine (ātma-vicara), rappresentano i frutti lungo il sentiero dello Yoga o meglio del Rāja-yoga.